L'ITALIA TRA STATO MINIMO E AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Ora che si è insediato il nuovo governo Conte Bis, è importante fare alcune riflessioni sulle disfuzioni che caratterizzano il sistema pubblico italiano, un punto fondamentale per comprendere le conseguenze di un’eventuale autonomia differenziata.

Lo Stato italiano, unito solo da un secolo e mezzo, è tradizionalmente debole nei confronti dei localismi e dei corporativismi. Questa debolezza si è manifestata nel tempo in modi e a livelli diversi. Oggi è resa evidente da serie disfunzioni dell’intero sistema pubblico, sia politico/istituzionale che amministrativo.

In sintesi: nelle istituzioni non funziona il rapporto Parlamento-governo (e nelle autonomie tra Assemblee elettive ed Esecutivi) e non funziona il rapporto tra Stato centrale e Regioni/Autonomie locali. Queste disfunzioni si ripercuotono sul funzionamento delle Amministrazioni pubbliche.

Sul piano politico/istituzionale: il Parlamento si limita a ratificare le scelte del Governo, quali che siano. A livello nazionale i leader di partito che hanno vinto le elezioni ottenendo la maggioranza in Parlamento nominano premier e ministri. I parlamentari sono scelti, con la legge elettorale vigente, dai leader e in obbedienza a questi votano la fiducia al governo e ne approvano i provvedimenti, con qualche modifica. Il potere esecutivo cattura il potere legislativo. I messaggi rivolti all’opinione pubblica per ottenere consenso elettorale, sono tradotti in norme di legge. Troppe, spesso contraddittorie e scritte al 95% dagli uffici legislativi dei ministeri. Non si fanno politiche pubbliche. La legge di bilancio è fatta da una norma madre sui limiti del debito, posti dalla UE, e poi da una quantità di norme particolari che rispondono a singole esigenze o a interessi di specifiche consorterie.

Sul piano amministrativo: nei grandi Stati federali c’è una Camera dove sono rappresentati i territori (il Senato in USA, il Bundesrat in Germania), dove interessi e posizioni di questi vengono composti in una sintesi  che diviene la posizione dello Stato (federale). In Italia questo non esiste. C’è un federalismo concorrente/conflittuale (dalla riforma del titolo V oltre 1200 ricorsi alla Corte Costituzionale sono stati presentati per conflitti di competenza sulla legislazione concorrente), connotato da trattative e contenziosi tra Stato centrale e singole Regioni, materia per materia, questione per questione. Una situazione che deflagra oggi con le richieste di autonomia differenziata delle Regioni più ricche, per acquisire competenze a danno dei ministeri centrali e risorse a danno delle Regioni più povere.

Le pubbliche amministrazioni soffrono l’eccesso di leggi e la frammentazione dei poteri. La “troppa burocrazia“ non è  dovuta all’eccesso di funzionari, in calo da decenni, ma all’eccesso di procedure, di passaggi a tutela di soggetti privati o di altri apparati pubblici. L’intervento materiale sui territori é’ disarticolato, in verticale tra i livelli istituzionali, e in orizzontale tra le singole amministrazioni. Pesano, inoltre, gli effetti dell’impronta neoliberista delle privatizzazioni, delle concessioni e delle esternalizzazioni. “Meno Stato più mercato “ha significato meno risorse per i servizi pubblici, affidamento ai privati di aziende importanti e di funzioni delicate. La privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti ha consegnato il pubblico impiego alla congestione corporativa tra sindacati, alta burocrazia e politici di governo, con la progressiva immissione di forme contrattuali precarie per aggirare il blocco del turnover. Tra corporativismo e localismi l’Italia sta diventando “una società senza Stato “ (Cassese).

Uscirne è possibile. Le linee di soluzione sono indicate da alcune esperienze straniere. Si è già detto del Senato delle autonomie, al posto del federalismo conflittuale. Negli USA le Camere controllano l’Esecutivo piu’ forte al mondo, attraverso le Commissioni e il Bilancio. In Francia i rapporti tra Stato e Autonomie sulle cose da fare sono regolati da “contract de plan“. In molti paesi d’Europa il municipalismo mette sotto il controllo dei cittadini l’esercizio delle funzioni locali, attraverso le Assemblee elettive e le procedure di partecipazione.

Il municipalismo, l’autogestione, o l’amministrazione condivisa delle città può sicuramente porre rimedio al deficit di democrazia che vede l’establishment supportare un sistema sociale sempre più iniquo. Come Debbie Bookchin ha sottolineato, nelle considerazioni finali al primo “Summit Internazionale delle città senza paura”, organizzato in giugno del 2017 da Barcelona en Comù: “il municipalismo non riguarda l’implementazione di policy progressive, ma la restituzione del potere alle persone comuni”. Nondimeno la l’autodeterminazione dei territori deve contemperarsi con assetti istituzionali capaci di funzionare senza generare entropia, quella che deriva da divari sociali e territoriali che permangono o si ampliano, in assenza della funzione perequativa dello Stato. Egoismi regionali che minano la coesione della comunità nazionale e sono destinati a produrre la “secessione dei ricchi”, la decomposizione dell’Italia, in un assetto sovranazionale che ha rinunciato da tempo al sogno degli Stati Uniti d’Europa.

Antonio Zucaro Coordinatore DSC Roma13 e Presidente dell’Associazione Nuova Etica Pubblica

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