Student Protest in Palermo

L’europeizzazione dell’educazione: quale futuro per la scuola in Europa?

Francesca Lacaita, Rossella Latempa,  Paola Pietrandrea,
 
Tutti noi, e non solo gli addetti ai lavori sappiamo, come funziona il sistema educativo del nostro paese. E tutti noi sappiamo anche, più o meno vagamente, che i nostri sistemi educativi sono coordinati, monitorati e valutati secondo alcuni standard e criteri che possiamo definire genericamente “europei”.
Di solito non abbiamo nulla da obiettare a questo stato di fatto: percepiamo l’europeizzazione dei sistemi educativi come una garanzia di qualità, di buon funzionamento e anche come un indice di quella cooperazione internazionale, di quella integrazione europea di cui abbiamo sempre più bisogno per proteggerci da provincialismi e nazionalismi.
Sembrerebbe quindi che tutto vada bene. Purtroppo pero’ non è cosi, le cose sono più complicate di quanto non possa apparire. Vediamo perché.
L’europeizzazione dei sistemi educativi è un dato piuttosto recente. Teoricamente l’educazione dovrebbe essere responsabilità degli stati: l’istruzione nei paesi europei è sempre stata un affare nazionale, funzionale al consolidamento dell’identità e della cultura di una comunità. Ogni sistema educativo ha avuto una sua storia, legata all’evoluzione della sua politica, della sua geografia e tradizioni, lingua e tessuto sociale.
E’ successo pero’ che pur restando l’educazione formalmente di competenza nazionale, dal Trattato di Maastricht del 1992 in poi, è stata introdotta per gradi nelle politiche educative di tutto il continente una nuova “ortodossia” basata sulla comparazione dei sistemi di istruzione.
Questa nuova ortodossia porta con sé due problemi.
Prima di tutto, si è imposta, come un dato di fatto più che come una politica concertata.  Qualcuno ha parlato di “governo senza governo” per caratterizzare quel processo che dalla strategia di Lisbona del 2000 alla Comunicazione Rethinking education del 2012, fino all’attuale strategia ET2020 si è mossa sempre su una stessa linea argomentativa: l’educazione deve essere “ripensata” in funzione di competenze che generino occupazione (employability), produttività e competitività.
Secondo appare evidente come la nuova ortodossia sia stata guidata da presupposti ideologici estremamente chiari e possenti. Le politiche educative sono state spesso e continuano ad essere formulate sotto la pressione e con il significativo contributo di organizzazioni internazionali come l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) – che non è solo europeo -, La Commissione Europea, il Consiglio d’Europa, e l’Unione Europea. Queste organizzazioni perseguono politiche educative in accordo con i loro obiettivi, che sono, come sappiamo, per lo più obiettivi di supporto alle economie di mercato e al principio di competizione tra le società e in tutti gli aspetti della società.
Questo è vero in particolare per l’OCSE, che è sotto i riflettori nel dibattito, in quanto organo che gestisce e pubblica i reports di Pisa, ed è vero in una certa misura per la Commissione Europea. Per quanto riguarda il Consiglio d’Europa – la cui missione consiste nella promozione della democrazia, dei diritti umani e dello stato di diritto, ma il cui potere di implementazione non è nemmeno lontanamente comparabile con quello dell’Unione Europea– questa istanza promuove programmi e iniziative estremamente interessanti, che pero’ non ricevono la stessa attenzione mediatica e lo stesso senso di urgenza e necessità che caratterizzano le proposte delle altre organizzazioni.
Per riassumere, oggi si può parlare di un vero e proprio “spazio” europeo dell’educazione, costruito da diversi attori sociali: decisori politici, tecnici, lobbies, accademici, agenzie private, associazioni2. Un’area internazionale di elaborazione e di decisione in materia di istruzione e ricerca scientifica, da collocare in una cornice ancora più ampia3, come recentemente ricordatoci dal rapporto dell’OCSE “Strategia per le competenze”. Caratterizza questo luogo di decisione un inevitabile referenza all’ideologia neo-liberista.
 

Educazione neo-liberista e ‘laboratori giganteschi

In questa prospettiva l’educazione non ha per compito lo sviluppo degli esseri umani e dei cittadini di una comunità (che sia nazionale, Europea, globale o interculturale) con un obiettivo di emancipazione, e nemmeno si colloca nel quadro di un’autonomia dell’insegnamento da ogni potere economico e politico come prevedrebbero  le nostre Costituzioni. In questa prospettiva, l’educazione serve a migliorare il capitale umano al servizio dell’economia e a renderlo internazionalmente competitivo, nella migliore delle ipotesi l’educazione serve in questa prospettiva ad aiutare ognuno a trovare il proprio posto nelle strutture esistenti rimuovendo cosi’ contraddizioni e inefficienze.
Come ha mostrato Rossella Latempa , questa posizione ideologica sottesa alle politiche educative è imposta dai Ministeri alla scuola attraverso due mezzi potenti: un ricatto economico e il dilagare di uno storytelling celebrativo dell’innovazione pedagogica spesso sprezzante nei confronti dell’approccio tradizionale.
Prendiamo l’esempio italiano: la concessione di finanziamenti europei, che sarebbero dovuti e che sono di fatto indispensabili, è subordinata dal 2014 alla realizzazione nella scuola di una serie di attività extra-curricolari, i cosiddetti progetti PON, destinati a un numero ridotto di studenti e da svolgersi necessariamente attraverso quelli che il Ministero definisce “approcci innovativi”, cioè: “Dimensioni esperienziali [caratterizzate da una] ricomposizione tra il linguaggio della scuola e quello della realtà socio-economica”. Insegnanti e formatori – si chiarisce nelle varie azioni – devono strutturare “situazioni di apprendimento” basate sulla soluzione di problemi concreti e “metodi di lavoro utili per la vita e per lo sviluppo professionale”. E’ approccio innovativo dunque un approccio che orienta l’educazione verso l’apprendimento professionale.

In questa prospettiva, il discorso dominante si ammanta nella scuola di una terminologia ereditata in maniera approssimativa e acritica dalle scienze pedagogiche nella quale si fanno passare per acquisizioni scientifiche stabili quelle che in realtà sono solo  scelte metodologiche e didattiche spesso funzionali al modello ed alla logica dominanti: metacognizione, project based-learning, cooperative learning, learning by doing, flipped classroom, apprendimento formale ed informale, digital storytelling, brain-storming, outdoor training, teatro d’impresa, e-learning[1]. In questa prospettiva concetti ad alto tasso ideologico sono presentati come discorsi educativi ineluttabili nella solita narrativa della necessità dell’innovazione per la “salvezza” della nostra scuola.
Ad aggravare la manipolazione del discorso dominante, c’è, almeno in Italia, la retorica autocelebrativa, ridondante e arrogante del Ministero.
Nel rapporto di valutazione indipendente (2007-2013), che il MIUR ha affidato alla società di consulenza privata Deloitte Consulting srl, si scrive, con l’enfasi tipica di chi è fiero di aver contribuito ad una svolta per il Paese, che i progetti PON hanno battuto la strada per quella che “punta ad essere una modifica sostanziale di comportamenti collettivi ritenuti limitativi e dannosi per un moderno sistema di istruzione” e “trasformato il sud in un gigantesco laboratorio territoriale” dove “si è fatta innovazione”.
Nonostante il contributo del programma allo sviluppo del capitale umano della scuola sia ancora in fieri, nel rapporto si sottolinea la “forza di trascinamento verso il cambiamento” e la necessità di sedimentare i risultati, di imprimere una “direzione coerente [..] e governarla”. Con poca prudenza, in questo documento, si parla di “distruzione creatrice schumpeteriana”, di “rivoluzione del paradigma scientifico alla Khun” (!).  Insomma, una destrutturazione profonda della Scuola in termini di formazione e organizzazione. A chiare lettere si raccomandano “meno enfasi alla formazione disciplinare” e nuova cura alla costruzione delle giuste “mappe cognitive” degli attori coinvolti nel processo di rinnovamento: gli insegnanti.
Il documento li definisce “professionisti della scuola di vecchia data” ancora convintiche non solo il titolo di studio serva, ma sia un valore” e trovatisi ad affrontare “un cambiamento delle stesse sinapsi cerebrali che presiedono i loro comportamenti routinari”, per far fronte alle esigenze formative dei “nativi digitali”.
La combinazione dunque del ricatto finanziario e di una retorica sprezzante umilia la sovranità istituzionale della scuola e umilia la sovranità professionale degli insegnanti. La percezione che questo discorso dominante discenda dalle istituzioni europee crea, come siamo abituati a vedere ormai in ogni ambito, sospetto, irritazione e fastidio nei confronti delle restrizioni imposte dagli Eurocrati.
Rossella Latempa mostra, in maniera molto interessante, che l’irritazione e il fastidio dovuti alle restrizioni imposte dagli “eurocrati” spinge i professionisti dell’Educazione a rivendicare la propria sovranità richiamandosi a una (ri)nazionalizzazione delle loro istituzioni.

Educazione multidimensionale e sovranità nazionale

Ora è chiaro invece che sovranità istituzionale e sovranità nazionale sono due cose separate che non coincidono. Se l’educazione non puo’ prescindere dalle prima, la seconda non ha più senso al giorno d’oggi.
Anzi, come indica Rossella Latempa, proprio dal riformulare le idee di educazione, ricerca e sviluppo comuni, potrebbe liberarsi quel potenziale culturale ideale ed eversivo necessario alla costruzione di un’identità europea nuova e più ambiziosa. Pensare a quale educazione vogliamo, significa pensare a quale cittadino europeo vogliamo nel nostro futuro: un cittadino trasnazionale, non un individuo che viva in perenne mobilità, a cui non sia richiesto di elaborare un progetto lavorativo dopo l’altro, di rinnovare continuamente le sue competenze, in un processo di scelte e decisioni continue.  Una persona, con i suoi desideri e paure: non solo un problem solver, flessibile e pronto a rappresentare l’Europa nel campionato mondiale del progresso e dell’innovazione.
Fermiamoci a pensare per un attimo quale cittadino europeo vogliamo che la scuola contribuisca a creare.
Se, come nell’utopia che il movimento DiEM25 disegna, l’Europa da costituirsi dovrà essere un’Europa federale, ma anche degli stati, delle regioni, delle città, un’Europa multidimensionale e reticolare, in cui le appartenenze e le identità di ciascuno siano necessariamente multiple, perché non immaginare un’educazione multidimensionale, in cui alcune questioni e metodi restino europei: quelli che servono a rinforzare la coscienza di una cittadinanza europea; altri si declinino nazionalmente, altri regionalmente e cosi’ via?
In questa prospettiva, nel rispetto delle varie sovranità – e prime fra tutte nel rispetto della libertà d’insegnamento, che costituisce la sovranità professionale dell’insegnante iscritta, lo ribadiamo, nelle nostre Costituzioni – si potrebbe ridisegnare una scuola dove il concetto di innovazione non sia schiacciato su quello di profitto.

Educazione come bene comune

Fermiamoci ora a pensare a quale modello vogliamo per l’educazione. L’educazione, crediamo, dovrebbe essere pensata come bene comune europeo: un’ “impresa collettiva” a cui partecipare; una forma di “cittadinanza” come spazio di azione e definizione di obiettivi politici che non rinuncino alle dimensioni culturali, sociali e civiche dell’educazione.
Pensare all’educazione come bene comune non significa immaginare – come sembrano suggerire le introduzioni traboccanti di buoni propositi dei documenti ministeriali ed europei – una scuola “centro civico”, possibilmente aperto tutto l’anno, che allestisca progetti dalle finalità più disparate per sopperire a carenze strutturali e politiche stratificate.
Al contrario, significa pensare all’educazione come a un bene che tutta la società deve essere pronta ad alimentare e tutelare: la scuola farebbe in questo modo la sua parte (e solo la sua parte) al centro di un tessuto civico complesso, composto da biblioteche, centri culturali e sportivi, luoghi deputati all’educazione continua, interamente dedicato all’educazione e alla cultura.
 
Ma pensare l’educazione come bene comune significa anche immaginare che di questo bene possa godere tutta la comunità in un futuro progettato con sguardo lungo e puntato verso l’alto. Pensiamo che questo disegno possa essere costruito da cittadini culturalmente capaci di incidere, agire ed immaginare alternative.
È per questo che proponiamo ai membri di DiEM25 e a chiunque abbia a cuore questi temi di discutere della scuola “europea” che vogliamo in una prospettiva che sia già da ora transnazionale. Operativamente, questo significa che proponiamo di creare un DSC tematico transnazionale, nel quale si affrontino almeno i seguenti nodi:
1. Una valutazione della situazione corrente

  • –  Quali riforme del sistema educativo sono state introdotte nel vostro paese negli ultimi anni?
  • –  In che misura l’introduzione di queste misure è stata concertata con I soggetti interessati, student, insegnanti, famiglie?
  • –  In che misura il sistema educativo del vostro paese è capace di rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale e personale che si frappongono al pieno sviluppo intellettuale e culturale degli studenti?
  • – Sono state introdotte recentemente nel sistema educativo del vostro paese forme di “formazione lavoro”? Quali?
  • – Quanto spazio è dato alla performance e alla competizione tra student nel sistema educativo del vostro paese?
  • – Avete notato un cambiamento nella percezione pubblica del ruolo degli insegnanti? Più specificatamente condividete l’impressione che agli insegnanti si attribuisca sempre più marcatamente un ruolo di istruttori e trasmettitori di conoscenza piuttosto che di educatori?
  • – Quale spazio il sistema educativo del vostro paese concede allo sviluppo del pensiero critico ?

2. Proposte per un modello di educazione come bene comune
2a. Quale ruolo per la scuola nel sistema educativo complessivo

  • –  La scuola deve essere l’unico luogo di formazione e trasmissione del sapere?
  • –  Quali altre sedi?
  • –  Quale la specificità della scuola?
  • –  Chi deve occuparsi della educazione degli adulti?

2b Quale interazione tra scuola e ricerca pedagogica

  • –  Come armonizzare l’interazione tra scuola e ricerca pedagogica? La scuola è un banco di prova? Una sede di sperimentazione? Una sede di elaborazione? Una sede di discussione delle proposte  didattiche?
  • –  Quali strumenti permetterebbero una transizione più armonica?

2c Scuola e innovazione

  • –  Come puo’ la scuola far fronte alla forza disruptive della rivoluzione tecnologica? Quale riflessione  è necessaria? Come accordarsi questa riflessione? Con quali tempi? Con quali istanze? Per fare cosa?

3. Proposte per un governo della scuola
3a Quale ruolo delle differenti istanze nella creazione di politiche educative? 

  • –  Pensate che sia giusto integrare e coordinare I diversi sistemi educativi europei?
  • –  Come integrare la prospettiva europea con prospettive più locali?
  • –  Pensate che uno dei ruoli dell’educazione consista nello sviluppo di una cittadinanza europea? E se si’, in che modo?

Più in generale,

  • –  Quali dovrebbero essere I tempi di attuazione, verifica e discussione di ogni rifroma scolastica per evitare che un elemento chiave della nostra società diventi terreno fertile per il lancio di messaggi propagandistici vuoti nell’eterna campagna elettorale che viviamo?

Chiunque voglia rispondere a queste domande, o proporne alter, chiunque voglia contribuire a creare una sfera transnazionale di discussione pubblica sull’educazione, puo’ contattarci a questo indirizzo:
[email protected]
Restiamo in contatto, restiamo uniti e riprendiamo il controllo sull’educazione. Ne abbiamo bisogno e lo meritiamo.
 
Francesca, anglista, insegnante di scuola media e coordinatrice del DSC1Milano
Rossella, fisica, insegnante di scuola media e membro di DiEM25
Paola, linguista e membro del Collettivo di Coordinamento di DiEM25

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